Se, secondo l’ultimo Rapporto del CENSIS, gli italiani appaiono sonnambuli, inerti, stanchi, ciechi e rassegnati, disillusi dalla vita ed abbandonati al corso degli eventi, il tempo che stiamo vivendo dalle nostre parti, caratterizzato dalle saracinesche abbassate, dalle insegne luminose spente, dai vetri appannati e dagli scatoloni accatastati, è quello del “si salvi chi può”, in cui a prevalere sono i verbi coniugati alla prima persona singolare e che hanno ad oggetto la pluralità dei bisogni che ne
costituiscono il fondamento.
C’è, infatti, il bisogno di coloro che sono restati, quasi mai per scelta; il bisogno di coloro che sono andati via senza mai dimenticare il teatro della loro giovinezza, e che vorrebbero tornare per poco o per sempre (turismo delle radici?); il bisogno di chi, stanco della vita estraniante della grande città, vorrebbe vivere in un piccolo borgo che però non sia un museo delle porte chiuse e delle piazze rifatte dove nessuno passeggia più.
Eppure, sarebbe più semplice rivendicare coralmente i medesimi bisogni, spostando l’obiettivo dal diritto del cittadino al diritto del borgo. Già perché i nostri borghi, pieni di storia, cultura e bellezze ambientali e paesaggistiche, hanno il diritto di essere tutelati e valorizzati.
A fronte di questa nuova generazione di diritti sociali, che necessitano di politiche capaci di rimuovere gli ostacoli economici, sociali ed infrastrutturali che caratterizzano le nostre aree interne, si registrano iniziative frammentate, disordinate e finalizzate solamente ad intercettare risorse finanziarie da impegnare
per progetti dal fiato corto. Nessuna Istituzione (pubblica o privata poco rileverebbe in questa fase di “chiamata alle armi”) è stata capace d’intavolare una riflessione di prospettiva, anche per capire se c’è ancora interesse a recuperare il senso identitario del nostro territorio.
Massimo Greco
Foto tratta da https://siviaggia.it/