Calascibetta. Domenica mattina d’inverno di fronte alla Società Agricola, un retaggio di democraticità e di ingerenze partitiche, qualcosa rimasto molto al di là della presenza di un paese, delle personalità, della Seconda Repubblica e dell’esistente fine a se stesso. Un paese contro sole, accecato da cappelle palatine, piazze e da questa struttura babelica a metà strada tra Magritte e Hyeronymus Bosch, dove l’ubicazione del paese è già racconto: Calascibetta che guarda Enna, le Madonie, l’Etna innevato e fumante e tutto l’orizzonte che la vista riesce ad investire senza sforzo. Qui, dove il dicembre è impercettibile e dove gli sguardi d’intesa sono consumati da anni d’abitudine, le donne sono fantasmi di lavoro, chiacchiere da bar e passeggiate… rigorosamente passeggiate. Qui, si va ancora a braccetto tra compari, con battute cianidriche senza comprensione.Nel nulla mattutino di un bar e di un’attesa, un furgoncino si accosta e si presenta. Non è la persona che attendo, ma il sindaco in persona. Senza banda al seguito, senza la fascia tricolore e, soprattutto, senza la prosopopea notabile e paesana, mi costringe ad una presentazione senza indiscrezione. Lo seguo fino all’azienda di Pietro Di Venti e lì scopro l’arcano.
Carmelo Cucci è il sindaco di Calascibetta. Ex dipendente statale e nuovo imprenditore, ha preso la politica rendendola comprensibile, almeno per i suoi compaesani. Un’enclave dove le tasse scompaiono e il merito diventa virtuoso. Il problema, però, è sempre lo stesso ed accomuna tutti quei paesi dell’entroterra siciliano che hanno quel passato disseppellito grazie alle macine, ai campanili, ai ciottoli e alle scale delle chiese e quel futuro senza futuro: qui ci sono bambini e ci sono anziani. Calascibetta non è un paese per giovani. Oltre la vista, l’ozio, le passeggiate e una terra che non può che essere coltivata ma che non riesce ad essere venduta, non c’è una reale prospettiva e non c’è una reale produzione. E così si preferisce andare. Così il lavoro del sindaco non è quello del politico ma quello del resistente e del confidente.
Figli maturi, mogli tenutarie terriere e una possibilità nuova. L’olio. Lontano da qui, lontano da questi monti Erei, terra di pecore, zafferano e zolfatare. Noto, l’obelisco della Sicilia, la Shangri-La dei produttori, dove tutto è dissotterrato, compreso il turismo. La moglie ha un terreno e Carmelo decide di coltivarlo in biologico. Frantoio prossimo all’azienda. Olive raccolte all’acme dell’invaiatura. Un solo prodotto. Blend di Moresca (70%), Tonda Iblea, Nocellara del Belice e Nocellara dell’Etna. Bassissima acidità, alti polifenoli. La pulizia delle olive, il poco tempo, l’assenza di ossidazione indotta, rilasciano, nel prodotto del 2012, un equilibrio pressoché perfetto. Senza estremità, è amaro, è fruttato, è penetrante e nel finale è piccante. Il colore è un verde-giallo pulito con un po’ di opacità. I retrogusti sono quelli tipici del cardo.
Carmelo ha deciso di stampare le percentuali delle cultivar direttamente sulla bottiglia. È stato uno dei primi a farlo in Italia, ha preso uno dei segmenti della Dop dei Monti Iblei, cercando di ritagliarle un senso, al di là degli smaccati sofisticatori, che trasportano il suino nero, cambiandogli il nome e localizzandolo, e al di là di quello stato contributivo delle cose che non permette all’ennesimo figlio alla ricerca di un posto di lavoro, di trasformare l’agricoltura in un agriturismo e in una professione. Così le olive rimangono olivi e e l’olio rimane olio. Troppe spese e poche possibilità di investimento a non-perdere. Così Carmelo rimane a Calascibetta, provvede a non intasare di cazzate le tasche del cittadino, provvede a fare il contadino in determinate regioni dell’anno e provvede a produrre un olio che abbia un senso e una spendibilità. Senza clamore, con un’ironia accentuata da quell’accento ennese che è il più connotativo della Sicilia. Con una concorrenza infinita e con il pregio della differenza. Perché “il buon esempio dei signori è sempre una calamita che attira il popolo”…
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