L’essere umano non crea, semmai inventa, scopre. Per questo il confine tra storia e leggenda è labile, a volte indistinguibile, tanto che un evento storico può apparire leggenda e una leggenda acquisire credito storico. Omero, Erodoto, Virgilio, Dante, Polo, Pico, Leonardo, Nostradame, Verne, Salgari, Asimov e tanti altri nelle loro narrazioni ci hanno consegnato emozioni e immagini così forti da lasciare dubbiosi i posteri sulla possibile veridicità degli accadimenti riferiti (vissuti?, sperimentati?, attinti?, ricostruiti?, pensati?). Gaetano Amoruso è di Agira, la città di Diodoro e di Isacco, di Fedele e di Bonerba, terra di leggendarie storie e di storiche leggende attribuite ad Ercole e a Filippo, patria di neogiansenisti e di giacobini avendo dato i natali a paladini del liberalismo e dell’illuminismo francese capaci di sfidare monarchia e papato nel più estremo regno del sud Europa: da Pietro Mineo a Nicola Rosselli, da Epifanio Cucchiara a Giuseppe Timpanaro. E se un determinato luogo diventa brodo di cultura di idee che alla distanza si dimostrano essere positive per la società nel suo insieme, ciò non è mai casuale.
Le energie vaganti capaci di stimolare pensieri e azioni costruttive convergono sempre in un cono di attrazione cosmica e sempre si concretizzano e vengono espresse allorché captate da mente pronta, vittima sacrificale di turno casualmente destinata a lasciare quel seme, esponendosi, ad altri che ne custodiranno l’umore vitale. Questa consapevolezza è stata di conforto per i vari Savonarola, Bruno, Galilei, Robespierre, Di Blasi. Di Gaetano Amoruso ricordo un interessante scritto del 1998 dal titolo “Alluvione”. Poche pagine soltanto, ma intense, vibranti, efficaci. Di lui ricordo pure, dello stesso periodo, la partecipazione alla rivista “Il Provinciale” nata per affrontare temi sociali. Egli è giornalista mai banale, mai retorico, mai scontato.
La sua esposizione in questo scritto è immediata e mirata, incalzante, maturata dagli eventi (reali o immaginari) su cui ha focalizzato la propria attenzione. Il suo soggetto preferito: se stesso. Si pone quasi sempre, nel romanzo, al centro dei fatti descritti senza però mai sminuire il ruolo e la valenza dei personaggi di contorno. Lo stile scarno e asciutto con cui traccia di getto gli avvenimenti (forse ripromettendosi, cosa che non farà mai, di ampliarli quando ne avrà tempo) fa apparire una stringata riduzione per il teatro ciò che, in altre mani, potrebbe diventare ampolloso romanzo. Mi ricorda Bargellini quando ritrascrisse eventi storici a mò di cronaca. Mi ricorda Montanelli.
La storia tocca una tematica attuale in tutti i centri storici: quella relativa alla salvaguardia di beni monumentali e artistici sparsi per le contrade del nostro paese, salvaguardia affidata alle istituzioni ma spesso portata avanti con immensi sacrifici da comuni cittadini.
Che la statua intorno a cui si impernia la vicenda sia realmente esistente poco importa perché ciò che conta è il significato da questa rivestito: il significato di simbolo. Se invece che di marmo fosse stata di cartongesso o se invece che di bene artistico si fosse trattato di bene naturalistico (un albero monumentale o una piccola pianta rara) sarebbe stato la stessa cosa.
La statua rappresenta l’ideale attorno a cui ruota quella parte dell’uomo-animale di oggi che si origina dalla spiritualità che lo stesso riconquistava ieri nel momento in cui stilizzava con i suoi primi graffiti ciò che la Natura a lui circostante gli stimolava l’innato senso artistico. L’Arte e l’Amore per l’arte come mezzo delle menti più evolute per avvicinarsi al Creato e al suo creatore. Non a caso l’Associazione di cui il protagonista Gianfilippo Roti è presidente si chiama Artenuova e si propone, nella angosciosa seduta dal 10 giugno 2001, di salvaguardare un prodotto artistico del passato in una città , Teia, dove le “…iniziative di tutela del patrimonio storico, che altrove sono considerate una routine…” provocano uno “…scandalo e di conseguenza il più efferato dei gossip…”. Non a caso Gianfilippo Roti “…considera l’arte come la cosa più bella del mondo…” (gennaio 2001).
L’associazione al pari della horcynus orca (come nel linguaggio di D’Arrigo, Gianfilippo Roti viene definito con il conio di un vocabolo derivato dalla fusione di democratico e di dittatore: democratore): una mostruosità para-mitologica incapace di morire, allorché assassina delle proprie idee, ma anche pronta a morire nel momento in cui, simile a generosa centenaria agave, genera Vita con il trionfo di una sua gemmazione che a lei sopravvive.
E non tanto da vedere nella riuscita traslazione della statua della Madonna la sconfitta della Morte quanto nei frutti che da questa operazione si generano: la vittoria sul vizio – alcool, droga, ecc. – in quanto tale per effetto di un reciproco leale comportamento nel mantenimento del convenuto accordo (“…io cercherò di non bucarmi più e se ci riesco tu sciogli l’associazione. La vita, come hai appena detto, non è solo rose e fiori ma anche sacrificio…”); la vittoria del ragionamento sull’istinto con la devozione al sentimento amoroso non sacrificato sull’altare dell’amore istintivo; la vittoria di una nuova vita quale evento miracolistico a coronamento della strenua difesa di valori obiettivamente positivi (“…la vita…va sempre vissuta con impegno e con onore…nel momento in cui uno si impegna a fondo allora tutto si muove, infinite cose succedono per aiutarlo, cose che altrimenti non sarebbero avvenute…”).
Ecco perché la statua (o altro) è un simbolo: la forza sta dentro di noi ed è fuori dal tempo, come fuori dal tempo sono i nostri pensieri e le nostre azioni anche se nel tempo si proiettano per l’intelligenza dei posteri perché u tempu eni komu u krivu ka cerni tutti i purkari du munnu pi skartari i kosi boni di kosi nfami. Non a caso l’autore dedica il romanzo alla figlioletta Egle che, con i suoi tre anni, rappresenta il futuro.
Introduzione a cura di Filippo Maria Provitina