L’attrice Stefania Zappalà al laboratorio “Teatro dei Territori” di Enna

Enna. E’ percependo la sensazione che un oggetto può restituire, che se ne potrà carpire il suono con cui definirlo. Il suono, composto anzitutto dalla voce, e completato poi dalla parola, è veicolo di un’espressione, un’intenzione e chiarezza sintattica, fondamentali ad un attore, che voglia farsi “ascoltare” e non semplicemente udire. Dar peso al proprio pensiero, vuol dire cercare il proprio ritmo, la propria coloritura di intenzione e timbro, la propria espressione. Parole queste, che vengon fuori da una veterana della lingua in scena: Stefania Zappalà, attrice e docente di tecniche della dizione, fonetica e interpretazione, che ha rincontrato per la seconda volta, dopo alcune settimane, gli allievi del laboratorio “Teatro dei Territori” di Enna.

Stefania Zappalà, attrice di prosa, aiuto regista, organizzatrice teatrale e docente di dizione e lettura espressiva. In quale ambito ritrovi maggiormente te stessa?
Sicuramente nell’essere attrice, che da 15 svolgo come mestiere, la scelta di diventare docente di materie teatrali l’ho fatta un po’ dopo, e ciò, mi dà la possibilità di mettere alla prova me stessa ogni giorno, nelle mie capacità di donarmi; è uno scambio continuo con l’altro, che mi è fondamentale. Dunque, anche se il pubblico, non è quello di un teatro, ma diventa quello dei corsi o laboratori, riesco a ritrovare il mio piccolo spazio attoriale.

Vieni dalla Scuola del Teatro Biondo Stabile; restare nella città è stata una cosciente scelta personale e professionale, o anche una comodità territoriale?
E’ stata una cosciente scelta professionale; le possibilità che ci forniva all’epoca la città e la Sicilia, erano ben diverse, e quindi avevo voglia di costruire nel mio territorio, di dimostrare che la Sicilia poteva ancora dare, ed io, contribuire nel mio piccolo. Una scelta che a volte trovo però discutibile, perché poi, come un po’ in tutt’Italia, la cultura è venuta meno negli anni e quindi sono venute meno le possibilità di poter esprimere con creatività il proprio mestiere.

Nel 1999, in collaborazione con i giovani colleghi Antonio Bonanno e Giuseppe Bufera, fondi a Palermo, l’Associazione Culturale “Cassiope”, con la quale hai sviluppato numerose produzioni teatrali. Quali di queste puoi rammentarci?
E’ una fortuna che l’abbia fondata perché mi ha dato la possibilità di crescere, di dar vita a delle “piccole creature”: quando non sei contrattata da un altro teatro, ed hai una tua compagnia, crei delle creature tue, e noi tre, siamo cresciuti grazie a questi spettacoli e i più importanti sicuramente sono: “Neurotandem”, un testo di teatro dell’assurdo che abbiamo recuperato un bel po’ di anni fa e che ha girato tantissimo: per una piccola compagnia, 40 repliche contano molto . Un altro spettacolo, è, “Dentro le mura”, che mi ha dato la possibilità di vincere un premio come migliore interprete con il monologo “Natale a Croceverde” nella rassegna romana “Il monologo e i suoi linguaggi”, nel 2009; un monologo che mi.. rende molto fiera. Ricordo anche “La loggia”, che è un inno alla poesia di Palermo, poi un testo di Valentine, “Pallide, bianche di paura, perché hanno fifa”, anche quest’ultimo ci ha dato modo di girare molto in Sicilia.

Irene Abbate, autrice contemporanea che vive e scrive di Palermo, ha curato dei monologhi di alcuni vostri lavori teatrali, di cui quello appena menzionato da te. Cosa rappresenta la sua presenza nei vostri lavori?
E’ una donna straordinaria, che conosce benissimo Palermo, soprattutto la ama, e la sa scarnificare e ricomporre in quadro poetico, quindi ne sa: parlare malissimo ma con una poesia tale, da renderla paradossalmente fantastica, anche nelle sue carenze; va molto fiera di me, per il monologo da lei scritto: “Natale a Croceverde”, che io per prima ho messo in scena. L’affetto e la collaborazione che ci legano, si manterranno salde anche per il futuro.

Cosa rende un monologo assestante in una messa in scena, e cosa si deve evitare per non perdere l’attenzione del pubblico?
Bisogna assolutamente evitare di essere monocorde e variare in continuazione; il pubblico ti segue se tu fai voli pindarici o quasi; si deve sempre donare la vivacità, il ritmo, e la capacità di farlo immergere in tante emozioni e di costruire un film: di aprire il proprio immaginario e far vedere che, dentro quel monologo scorre il film della vita di quel personaggio che in quel momento si sta interpretando. Dunque mai essere monocromatici nelle emozioni e variare nelle emozioni e nel ritmo. Ciò vale, quando c’è da mettere in scena un solo monologo, o quando esso è all’interno di una messa in scena più ampia dove comunque non si può mai considerare assestante, perché lo spettacolo avrà uno stile da rispettare ed un percorso che è fatto anche da altri personaggi che sicuramente influiranno su quel monologo.

Cosa suscita nell’attore, vedere la platea di fronte cui, si esibirà, semi-vuota o strapiena?
La platea vuota è triste, e l’ho provata, ma si riesce a trovare una motivazione anche nella presenza di poche persone, a meno di non essere fragile psicologicamente. La platea piena è un’emozione straordinaria, illumina; risulta immediato trovare un rapporto con il pubblico anche a trovarsi in un teatro all’italiana, composto da palco-platea. Ed anche la platea piena, che ho provata molte volte è un misto tra paura e divertimento; è adrenalina.
In una parola, cos’è il teatro?
Vita

Aurica Livia D’Alotto